giovedì 1 luglio 2010

RELAZIONE "PISANU" SULLE COLLISIONI MAFIA-POLITICA

ROMA – «Negli anni delle stragi di mafia culminate con gli omicidi dei giudici Falcone e Borsellino ci fu qualcosa di molto simile ad una trattativa tra Stato e Cosa Nostra». Sono le considerazioni alle quali è giunto il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Giuseppe Pisanu, che ha illustrato la sua relazione su «I grandi delitti e le stragi di mafia del 1992-93». «È ragionevole ipotizzare – ha detto – che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica».

LA PREMESSA – “Penso comunque – scrive nella sua relazione il presidente della Commissione Antimafia – che si possa partire da una preliminare, obiettiva considerazione: la spaventosa sequenza del 1992-93 ubbidì ad una strategia di stampo mafioso e terroristico, ma produsse effetti divergenti: perché se da un lato determinò un tale smarrimento politico-istituzionale da far temere al Presidente del Consiglio in carica l’imminenza di un colpo di stato; dall’altro lato determinò un tale innalzamento delle misure repressive da indurre Cosa Nostra a rivedere le proprie scelte e, alla fine, a prendere la via, finora senza ritorno, dell’inabissamento. Nello spazio di questa divergenza si aggroviglia quell’intreccio tra mafia, politica, grandi affari, poteri occulti, gruppi eversivi e pezzi deviati dello Stato che più volte, e non solo in quegli anni, abbiamo visto riemergere dalle viscere del paese. Nelle relazioni redatte dai colleghi che ci hanno preceduto, affiora costantemente l’esigenza di esplorare e capire fin dalle origini il rapporto mafia-politica. A quelle relazioni intendo fare riferimento, ma con una avvertenza per me decisiva. Di fronte ad eventi anche meno terribili di quelli che ebbero luogo in Sicilia, a Firenze, a Milano e a Roma, si giustappongono, senza mai fondersi, tre verità: quella giudiziaria, quella politica e quella storica. Esse si basano su metodi di ricerca e a volte su fonti assai diverse, con la conseguenza di dare luogo a risultati parziali o solo insoddisfacenti. Ciò è nella maggioranza dei casi inevitabile”. La verità giudiziaria – spiega Pisanu – è quella racchiusa nelle indagini che sfociano nelle sentenze dei magistrati. In esse prevale la ricerca della prova. Tale è una testimonianza, soprattutto se trova l’avallo di altri soggetti. Ma questo tipo di verità lascia l’amaro in bocca anche a giudici scrupolosi come il compianto Dott. Chelazzi: il magistrato infatti può trovare la prova della colpevolezza di un imputato, ma irrogare una pena non significa aver fatto luce, dal momento che possono rimanere in ombra sia il contesto generale sia i collegamenti interni di una vicenda delittuosa. Senza contare che le confessioni degli imputati, a cominciare dai pentiti, sono spesso funzionali a cogliere delle convenienze e a trarre dei vantaggi, come sconti di pena o migliori condizioni di detenzione. La verità politica – continua – è quella in cui siamo impegnati tutti noi per cercare di spiegare ai nostri elettori e a tutti gli italiani quali pericoli ha corso la democrazia nel biennio 1992-’93, e come possiamo evitare che questi rischi mortali si ripetano. La verità storica dovrebbe riuscire a combinare la verità politica e quella giudiziaria e raggiungere risultati meno parziali e circoscritti di entrambe. Ma anche in questo caso è bene non alimentare illusioni. Gli storici lavorano su archivi e documenti che sono anch’essi incompleti, di parte, pre-selezionati. Fino ad una decina di anni fa i fondi archivistici della questura di Palermo non erano consultabili. Quando è caduto il vincolo temporale che li rendeva inaccessibili, gli storici hanno potuto constatare che i mafiosi di ogni rango, sia alla fine dell’Ottocento sia del Novecento, ‘parlavano’, si confrontavano, si scambiavano favori, stabilivano intese con confidenti, poliziotti e questori. Se erano o no ‘trattative’ ognuno di noi è libero di giudicare. Bisogna anche ricordare – aggiunge Pisanu – che le stesse fonti usate dagli storici sono frutto di selezioni preventive da parte di coloro che versano i documenti agli Archivi dello Stato; perché non lo fanno alla cieca, ma oculatamente, cioè tenendo per sé i materiali ritenuti più sensibili ai fini della tutela dell’interesse generale”.

DALL’ADDAURA ALLE STRAGI – “Per le sue caratteristiche – osserva il presidente Pisanu – il fallito attentato all’Addaura può essere correttamente considerato come il prologo dei grandi delitti e delle stragi di mafia del 1992-93. Come è noto il 21 giugno 1989 sulla scogliera antistante la villa abitata dal giudice Giovanni Falcone all’Addaura nel lungomare di Palermo, furono trovate dagli agenti della scorta attrezzature subacquee ed una borsa sportiva contenente 58 candelotti di esplosivo comandanti a distanza.Erano ospiti del Dott. Falcone i magistrati svizzeri Carla Del Ponte e Carlo Lehmann che indagavano su fatti di droga e criminalità organizzata, dei quali si occupava per competenza territoriale lo stesso Dott. Falcone. Obiettivo dell’attentato era il giudice palermitano, divenuto ormai principale punto di riferimento per tutti coloro che contrastavano l’organizzazione mafiosa. La sua eliminazione fisica avrebbe assunto un alto valore simbolico, punitivo e preventivo allo stesso tempo. La notizia dell’attentato destò scalpore, polemiche e perfino il sospetto, forse di origine mafiosa, di una messa in scena voluta dallo stesso Dott. Falcone. All’epoca le indagini si indirizzarono su un commando proveniente dal mare a bordo di un gommone. Ma l’ipotesi è messa in dubbio dalle recenti dichiarazioni del pentito Fontana che ha ricostruito dettagliatamente i fatti attribuendone la responsabilità ad alcuni mafiosi, tra i quali Antonino Madonia che disponeva di un villino nelle adiacenze. L’attentato dell’Addaura, comunque, trova un’eco nella sentenza del Tribunale di Palermo del 4 aprile 1996 che condanna il Dott. Bruno Contrada, già dirigente del SISDE, per aver agevolato la fuga del professionista Oliviero Tognoli, un riciclatore di proventi del narcotraffico per conto della mafia. Costui era indagato in Svizzera dal pubblico ministero Carla Del Ponte e in Italia dal giudice istruttore Giovanni Falcone che lo avevano interrogato più volte congiuntamente. Anche la Dott.ssa Del Ponte poteva dunque essere inclusa nell’obiettivo degli attentatori. Sulla scena dell’Addaura è stata anche ipotizzata la presenza di due agenti della Polizia di Stato, Antonino Agostino ed Emanuele Piazza, probabilmente collaboratori esterni dei servizi di informazione e sicurezza, e quella di un terzo agente definito ‘faccia da mostro’. Un personaggio simile a quest’ultimo è stato descritto dal padre dell’Agente Agostino che lo sospetta come possibile complice nell’uccisione del figlio. L’omicidio dell’agente Piazza sarebbe invece da ascriversi a ‘Cosa Nostra’. La tragica scomparsa di entrambi gli agenti alimenta congetture diverse, ma allo stato attuale delle indagini non è possibile definire la loro posizione e trarre conseguenti deduzioni. Tuttavia, fra tante luci ed ombre, oggi riusciamo a comprendere meglio l’espressione del Dott. Falcone, secondo cui ‘menti raffinatissime’ avevano ideato il piano criminoso”.

L’OMICIDIO LIMA E LA STRAGE DI CAPACI – “Due anni dopo, il 12 marzo 1992 – prosegue Pisanu nella sua relazione alla Commissione Antimafia – viene assassinato, con un classico agguato di mafia, l’On. Salvo Lima, parlamentare europeo e autorevole esponente della Democrazia Cristiana. Inizia così la sequenza dei gravissimi fatti criminosi deliberati dagli organi di autogoverno di ‘Cosa Nostra’ che insanguineranno l’Italia fino a tutto il 1993, turbando profondamente la pubblica opinione e l’ordinato svolgimento della vita democratica. La magistratura ha individuato con chiarezza i mandanti, gli esecutori e il movente di questo delitto. Lima fu ‘punito’ come principale rappresentante siciliano del gruppo politico che non aveva saputo assicurare le necessarie tutele al ‘maxi-processo’: lo storico evento giudiziario ideato da Falcone che, per la prima volta, aveva messo a nudo l’organizzazione e le modalità operative di Cosa Nostra, insidiandone la stessa sopravvivenza. La necessità di attenuare gli esiti del maxi-processo e della legislazione antimafia costituì l’ossessione di Riina, il motivo scatenante delle vendette politiche, delle stragi e dell’attacco allo Stato”. “Viene da lì – spiega Pisanu passando all’uccisione di Falcone – la feroce determinazione con cui il 23 maggio 1993 fu compiuta la strage di Capaci, dove persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Le responsabilità del reato di strage sono state chiaramente accertate ed ascritte ai vertici di ‘Cosa Nostra’. In particolare è stata affermata la responsabilità sia della ‘Commissione regionale’ sia della ‘Commissione provinciale di Palermo’, e ciò in applicazione del cosiddetto ‘teorema Buscetta’, secondo il quale sussiste la piena condivisione dei delitti eccellenti, in quanto essi corrispondono alla realizzazione e alla tutela degli interessi vitali dell’organizzazione. Il movente della strage era incarnato nella straordinaria personalità del Dott. Falcone, in quel momento titolare di un ufficio di alto profilo istituzionale e, prima di allora, protagonista di interventi processuali che avevano portato la mafia alla grande sconfitta del maxi-processo. Ma nonostante le solide verità processuali, resta da chiedersi, come ha osservato in quest’aula il P.N.A. Piero Grasso, perchè mai Cosa Nostra abbia rinunziato al tentativo di assassinare facilmente il Dott. Falcone a Roma e abbia invece preferito la soluzione assai più complessa e rischiosa di Capaci. Si trattò soltanto di una ostentazione di potenza militare? O ci furono altre motivazioni, come, per esempio, induce a ritenere la sparizione dei files dal computer del Dott. Falcone presso il Ministero di Grazia e Giustizia?”.

LA STRAGE DI VIA D’AMELIO – “Pressocchè identica, sia nell’impostazione mafioso-terroristica, sia nell’esecuzione – prosegue il presidente della Commissione Antimafia – è la ’strage di Via D’Amelio’. Il 19 luglio 1992 una violentissima esplosione si verifica a Palermo in Via Mariano D’Amelio, provocando la morte di Paolo Borsellino, procuratore aggiunto presso la Procura Distrettuale della Repubblica di Palermo, e degli agenti di scorta Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina, nonchè il ferimento di numerose persone ed una generale devastazione delle cose circostanti. Il gravissimo attentato produceva l’istruzione di tre diversi procedimenti denominati rispettivamente ‘Borsellino 1′, ‘Borsellino bis’ e ‘Borsellino ter’. Il primo nasceva dai rilievi tecnici sull’autobomba utilizzata per l’attentato e conduceva rapidamente a colui che aveva commissionato il furto della stessa auto, Vincenzo Scarantino, al garagista che l’aveva custodita e imbottita di tritolo, Giuseppe Orofino, al tecnico dei telefoni che avrebbe controllato l’utenza telefonica della famiglia Borsellino, Pietro Scotto, e all”uomo d’onore’, Salvatore Profeta, che avrebbe gestito la fase preparatoria dell’attentato. Dopo l’arresto ed un periodo di carcerazione, lo Scarantino iniziava a collaborare con la giustizia e, tra accuse, ritrattazioni, conferme e smentite, consentiva di istruire anche i due successivi processi. In definitiva, nel primo processo veniva condannato all’ergastolo il solo Profeta, mentre nel secondo e nel terzo venivano condannati all’ergastolo gli altri esecutori materiali ed i mandanti, tutti appartenenti alla mafia militare e alla ‘commissione di Cosa Nostra’. Il movente veniva individuato, seppure con alcune riserve, in due direttrici fondamentali: la vendetta nei confronti di uno dei magistrati più incisivamente impegnati contro ‘Cosa Nostra’; la prevenzione a fronte delle indagini che Paolo Borsellino aveva in corso anche in ordine alla morte del suo più caro amico Giovanni Falcone. Entrambe le direttrici possono ricollegarsi alla strage di Capaci anche perché, come è emerso da numerose dichiarazioni, i due omicidi erano stati deliberati congiuntamente da ‘Cosa Nostra’ sin dagli inizi degli anni ottanta. Ciò detto – osserva Pisanu – occorre subito precisare che taluni aspetti fondamentali della strage sono ancora da chiarire. Infatti le dichiarazioni di Spatuzza e la parallela ritrattazione di Scarantino hanno sconvolto l’iniziale ricostruzione della scena. A tutt’oggi non conosciamo la composizione del commando stragista; sappiamo ben poco sulla provenienza dell’esplosivo impiegato, il ‘plastico T4 o pentrite’; e sembra definitivamente scomparsa l”agenda rossa’ che, a detta dei familiari, il giudice Borsellino consultò e ripose nella borsa prima di recarsi in Via D’Amelio. Osservo, comunque, che la nuova e più attendibile ricostruzione sposta il baricentro della strage dalla famiglia mafiosa del boss Aglieri a quella di Brancaccio, capeggiata dai fratelli Graviano, condannati in via definitiva per le stragi continentali del 1993. Ciò conferma la continuità della linea stragista di Cosa Nostra imposta dalla componente egemone e più violenta di Riina, Bagarella, Brusca, Madonia e, per l’appunto, dei fratelli Graviano”.

“Le prime indagini su Via D’Amelio – prosegue il presidente Pisanu sull’uccisione di Paolo Borsellino – avrebbero subìto rilevanti forzature anche ad opera di funzionari della Polizia di Stato legati ai Servizi Segreti. Ora è legittimo chiedersi se tali forzature nacquero dall’ansia degli investigatori di dare una risposta appagante all’opinione pubblica sconvolta o se invece nacquero da un deliberato proposito di depistaggio. Non ci sono, almeno per ora, risposte documentate. Sulla scena, comunque riappaiono le ombre dei servizi Segreti. Prima fra tutte, quella del Dott. Lorenzo Narracci, già collaboratore del Dott. Contrada, come funzionario del SISDE a Palermo, tuttora in servizio all’AISI, e a quanto pare indagato a Caltanissetta. Gaspare Spatuzza lo ha vagamente riconosciuto in fotografia come persona esterna a Cosa Nostra; mentre Massimo Ciancimino, testimone piuttosto discusso, lo ha indicato come accompagnatore del misterioso signor Franco o Carlo che avrebbe assiduamente seguito suo padre Vito Ciancimino nel corso della cosiddetta ‘trattativa’ tra Stato e ‘Cosa Nostra’. Sulla strage di Via D’Amelio e sugli sviluppi successivi, la ‘trattativa’ ebbe un impatto rilevante. Non è facile misurarne la portata a causa della segretezza delle indagini in corso. Come è noto, essa si sarebbe svolta tra l’allora Colonnello di CC Mario Mori e il suo collaboratore Capitano Giuseppe De Donno, da un lato, e l’ex Sindaco di Palermo Vito Ciancimino, dall’altro. Secondo l’opinione prevalente il primo contatto fu stabilito nello spazio di tempo compreso tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio e si protrasse fino al dicembre del 1992, praticamente fino alla vigilia dell’arresto di Riina avvenuto il 16 gennaio successivo. Di questi contatti – che nelle loro intenzioni costituivano un’ardita operazione investigativa – i due ufficiali informarono alcune Autorità politico-istituzionali. Secondo l’ipotesi accusatoria invece essi intavolavano un vero e proprio negoziato in virtù del quale ‘Cosa Nostra’ poneva fine alle stragi e otteneva, in cambio, provvedimenti favorevoli all’organizzazione. E’ probabile – osserva Pisanu – che Ciancimino abbia enfatizzato il suo ruolo di mediatore tra mafia e istituzioni con l’idea di trarre vantaggi personali da una parte e dall’altra. Ed è altrettanto probabile che l’iniziativa degli ufficiali dell’Arma sia stata percepita da Cosa Nostra come il segno della disponibilità di settori delle istituzioni a scendere a patti con essa, inducendola così a colpire ancora per piegare ogni eventuale resistenza. Brusca e Ganci sostengono che fu Riina a voler stringere i tempi della strage di Via D’Amelio, tanto da disporre il rinvio dell’esecuzione, già deliberata, di importanti personaggi politici. Il Giudice Borsellino era diventato ormai il numero uno tra i nemici di Cosa Nostra e, oltretutto, sarebbe stato sicuramente contrario alla trattativa: ebbe perciò precedenza assoluta. Va detto che la risposta dello Stato fu immediata e dura, l’esatto contrario di quel che Cosa Nostra poteva aspettarsi. Già nelle ore immediatamente successive alla strage il Ministro di Grazia e Giustizia Martelli disponeva la riapertura delle carceri di Pianosa e l’Asinara ed il trasporto dalla Sicilia di circa 250 ‘uomini d’onore’ per scontarvi la pena in regime di 41 bis. Il giorno successivo, il 20 luglio 1992, lo stesso Ministro, emette altri 325 provvedimenti di applicazione del 41 bis con scadenza annuale. Il 7 agosto viene rapidamente convertito in legge il cosiddetto Decreto Martelli che aveva prima incontrato molte resistenze. Due mesi dopo e precisamente in data 1° novembre 1992 vengono emessi ulteriori 567 provvedimenti di applicazione del 41 bis con scadenze al novembre 1993 e al gennaio 1994″.

L’OMICIDIO SALVO – “Ma Cosa Nostra non si ferma. Due mesi dopo – prosegue nella sua relazione il presidente della Commissione Antimafia – viene ucciso a Casteldaccia (PA) Ignazio Salvo, potente esattore delle imposte in Sicilia, già arrestato nel 1984 con il cugino Nino per associazione mafiosa. E’ un’altro atto della resa dei conti che aveva già colpito Lima e preso di mira diversi uomini politici, tutti colpevoli di non aver saputo salvare ‘Cosa Nostra’ dagli effetti devastanti del maxi-processo. Ma le esecuzioni individuali già programmate vengono disdette per aprire la fase più cruenta e politicamente eversiva: quella della produzione indiscriminata di terrore in tutto il paese, mediante gravissimi attentati al patrimonio artistico e culturale. La successione di sette operazioni stragiste, con le prime cinque concentrate nello spazio di soli tre mesi, non ha precedenti in Italia”. Pisanu ricostruisce così gli eventi di allora: “Alle ore 21.40 del 14 maggio 1993 un ordigno esplosivo deflagra all’incrocio tra Via Ruggero Fauro e Via Boccioni in Roma, subito dopo il passaggio dell’autovettura del noto presentatore Maurizio Costanzo che rimane fortunatamente illeso. L’esplosione provoca il ferimento di 24 persone e il danneggiamento di numerosi veicoli e degli edifici adiacenti. Alle ore 1.00 del 27 maggio 1993 una violenta esplosione in Via dei Georgofili a Firenze fa crollare un’ala della Torre del Pulci, e altri palazzi storici vicini. Perdono la vita il vigile urbano Fabrizio Nencioni, la moglie Angela, le figlie Nadia e Caterina, lo studente universitario Dario Capolicchio. I feriti sono 37. Alla Galleria degli Uffizi i danni sono gravissimi: tre dipinti perduti per sempre e 173 danneggiati, insieme a 42 busti e 16 statue. Alle ore 23.14 del 27 luglio 1993 un altra potente esplosione in Via Palestro a Milano, cagiona ingenti danni al Padiglione di arte contemporanea, agli automezzi e agli edifici vicini. Restano uccisi i vigili del fuoco Alessandro Ferrari, Carlo La Catena e Sergio Pasotto, il vigile urbano Stefano Picerno e l’immigrato Moussafir Driss. I feriti sono 12. Alle ore 23.58 del 27 luglio 1993 un ordigno esplosivo deflagra nella piazza San Giovanni in Laterano, a Roma, danneggiando le strutture murarie della Basilica e del Palazzo Lateranense, nonché i veicoli in sosta o in transito nelle vicinanze. A distanza di qualche minuto, una seconda esplosione danneggia la chiesa di San Giorgio al Velabro in Roma, gli edifici limitrofi ed i veicoli in sosta o in transito. Il 23 gennaio del 1994, una “Lancia Thema” imbottita con oltre 120 kg di esplosivo viene collocata nel viale dei Gladiatori a Roma, nelle immediate vicinanze dell’Olimpico, in un punto dove al termine di manifestazioni pubbliche sportive, transitano gli autobus dei carabinieri in servizio allo stadio. L’autovettura non esplode per il difettoso funzionamento del congegno di attivazione della carica. Il 14 aprile 1994, infine, in Formello (Roma) viene trovato un ingente quantitativo di materiale esplosivo occultato sul ciglio della Via Formellese, dove solitamente passa il collaboratore di giustizia Salvatore Contorno che abita da quelle parti. Osservo che l’esplosivo impiegato da Via Fauro in poi è lo stesso di Via D’Amelio: il plastico ‘T4 o pentrite’. Prodotto in Austria, Regno Unito, Svezia e Stati Uniti, il ‘T4′ è fuori commercio in Italia e lo hanno in dotazione soltanto le nostre Forze Armate. Cosa Nostra ne disponeva in grandi quantità: nei primi cinque episodi or ora richiamati ne fece esplodere ben 670 Kg. Tutti questi fatti, la cui connessione apparve evidente dopo pochi giorni, sono stati giudicati avanti la Corte di Assise di Firenze, città nella quale la strage aveva provocato il più alto numero di vittime. La nuova strategia di tipo terroristico, basata sull’esecuzione di attentati indiscriminati fuori dalla Sicilia, principalmente contro beni nazionali di interesse artistico – conclude Pisanu – aveva, come chiariranno i processi, i seguenti obiettivi immediati: l’abrogazione della normativa penitenziaria con l’isolamento carcerario dei mafiosi; la chiusura di alcune carceri ’speciali’ (Pianosa e l’Asinara); la sterilizzazione della normativa sui ‘collaboratori di giustizia’; la degradazione della cultura dell’antimafia mediante l’eliminazione di un giornalista considerato suo sostenitore”.

CONSIDERAZIONI FINALI – Nelle sue considerazioni finali alla relazione per la Commissione Antimafia, il presidente Pisanu riconsiera i fatti “alla luce dei nuovi elementi che sono emersi per vie diverse negli ultimi due anni”. “Il punto di svolta della strategia politico-militare della mafia siciliana – scrive – è dunque il 30 gennaio del 1992, quando la Corte di Cassazione, pronunciandosi definitivamente sul ‘maxi-processo’, rigetta tutti i ricorsi delle difese e consacra il criterio della responsabilità implicita della ‘Commissione’, l’organo di autogoverno di Cosa Nostra. Lì si interrompe la lunga ‘pax mafiosa’ iniziata nella seconda metà degli anni ‘80 e ‘Cosa Nostra’ presenta immediatamente il conto a coloro che non avevano saputo proteggere l’associazione dalla bufera giudiziaria. Per Salvatore Riina ed i suoi ‘uomini d’onore’ non aveva alcuna importanza chiedersi se i tradizionali referenti, come Lima e Salvo, avessero fatto veramente tutto il possibile per mantenere le promesse; ciò che contava era solo che essi non apparivano più in grado di assolvere ai loro compiti in un momento cruciale per la vita dell’organizzazione. Avendo esaurito la loro funzione, da vivi non servivano più. Serviva, invece, la loro morte e quella di coloro che, come i giudici Falcone e Borsellino, erano stati, sul fronte opposto, i principali protagonisti dello storico ‘maxi-processo’. Mentre sembrava dileguarsi il mito della sua invincibilità ed impunità, quelle morti dovevano dimostrare a tutti, che ‘Cosa Nostra’ era e restava, comunque, più forte dei suoi nemici ed anche dei potenti amici che le avevano voltato le spalle; tanto forte da poter lanciare allo Stato una sfida temeraria. Il mutamento strategico di ‘Cosa Nostra’ e la sua radice terroristico-eversiva furono colti immediatamente dai vertici della sicurezza. Già nel corso dell’audizione dell’11 giugno 1993 – ricorda Pisanu – il Capo della Polizia Prefetto Parisi disse alla nostra Commissione: ‘(…) il coinvolgimento della mafia nelle ultime operazioni criminali… non appare che situabile in un disegno ancor più ampio, laddove interessi macroscopici illeciti, sistemazioni di profitti, gestioni d’intese con altre componenti delinquenziali ed affaristiche, nazionali ed internazionali, emergono con ogni evidenza (…)’. Recentemente, il Presidente Emerito della Republica Oscar Luigi Scalfaro, ha riferito nel corso di una intervista, che in quei giorni il prefetto Parisi ‘teneva in grande conto una segnalazione del Mossad, secondo la quale nel mondo della destra estrema c’era una forte spinta a destabilizzare la situazione italiana, puntando anche alle dimissioni del Capo dello Stato’. A sua volta, il dott. Gianni De Gennaro, allora Direttore della DIA, pur riconoscendo il contesto mafioso della strage di Via d’Amelio, intravedeva ‘elementi tali da far sospettare che l’intero progetto eversivo non fosse di esclusiva gestione dei vertici di Cosa Nostra, bensì che allo stesso potessero aver contribuito altri esponenti di un più vasto potere criminale. Era infatti evidente nell’omicidio Borsellino una chiara anomalia nel tradizionale comportamento mafioso, aduso a calibrare le proprie azioni delittuose sì da raggiungere il massimo risultato con il minimo danno; al delitto, infatti, era stata data una cadenza temporale tale da accelerare anziché infrenare l’azione reattiva delle istituzioni, con un conseguente ed apparente danno per l’organizzazione criminale’. Le analisi di Parisi e De Gennaro troveranno successivamente ripetute conferme nelle sedi giudiziarie”.

“E’ dunque ragionevole ipotizzare – continua Pisanu – che nella stagione dei grandi delitti e delle stragi si sia verificata una convergenza di interessi tra Cosa Nostra, altre organizzazioni criminali, logge massoniche segrete, pezzi deviati delle istituzioni, mondo degli affari e della politica. Questa attitudine a entrare in combinazioni diverse è nella storia della mafia e, soprattutto è nella natura stessa della Borghesia mafiosa. Basti pensare al mancato golpe di Junio Valerio Borghese, al finto rapimento di Michele Sindona, alla regia di Pippo Calò nella strage del ‘rapido 804′. Quella storia ci dice, secondo la nota affermazione di Buscetta, che ‘la mafia non prende ordini da nessuno’, è autonoma. La sua stella polare è l’utilitarismo, cioè il concreto interesse dell’organizzazione. Lo stesso Giovanni Falcone ci aveva spiegato che non esistono ‘terzi livelli’ di alcun genere capaci di influenzare o addirittura determinare gli indirizzi di ‘Cosa Nostra’; e che ipotizzare l’esistenza di centrali del crimine, burattinai e grandi vecchi che dall’alto dettano l’agenda o tirano le file della mafia, significa peccare di ‘rozzezza intellettuale’. Probabilmente nei giorni in cui faceva queste affermazioni il grande magistrato considerava prematuro andare fino in fondo nell’analisi del rapporto mafia-politica. Tuttavia esse costituiscono ancora oggi un monito ineludibile per chi, come noi, ha il dovere di fondare sulla realtà dei fatti le proprie valutazioni. Ora è del tutto evidente, come hanno stabilito i magistrati e come ha confermato l’incerta copia del misterioso ‘papello’, che l’obiettivo essenziale, il fine ultimo pratico delle stragi del 92-’93 era quello di costringere lo Stato ad abolire il 41 bis e a ridimensionare tutte le attività di prevenzione e repressione. Era una posta altissima, perché il 41 bis, la normativa sui collaboratori di giustizia e quella sul sequestro dei patrimoni illeciti, avevano ed hanno una tale forza eversiva da far saltare gli assetti interni del potere mafioso e disgregare alla lunga l’intera organizzazione. Per questo ‘Cosa Nostra’ tratta o cerca di trattare con lo Stato. Oggi abbiamo notizie abbastanza chiare su due trattative: quella ‘dai contorni anomali’ tra Mori e Ciancimino che forse fu la deviazione di una audace attività investigativa; e quella tra Bellini-Gioè-Brusca-Riina, dalla quale nacque l’idea di aggredire il patrimonio artistico dello Stato, avendo spiegato Bellini ai suoi interlocutori che ‘ucciso un giudice questi viene sostituito, ucciso un poliziotto avviene la stessa cosa, ma distrutta la Torre di Pisa, viene distrutta una cosa insostituibile con incalcolabili danni per lo Stato’ (atti Corte Assise Firenze). Recentemente l’allora Ministro della Giustizia Martelli ha ribadito che mentre il Governo era impegnato in uno scontro frontale con la mafia ‘c’erano altre parti di Stato che viceversa pensavano che le cose si potevano aggiustare, se per un verso la mafia rinunciava alla strategia terroristica e dall’altra parte lo Stato si toglieva dalla testa l’idea di portare il colpo definitivo a Cosa Nostra’. Per l’ex Ministro Mancino non ci fu trattativa: ‘noi l’abbiamo sempre respinta … anche come semplice ipotesi di alleggerimento dello scontro con lo Stato portato avanti dalla mafia’. Sono due punti di vista diversi e comunque meno contraddittori di quel che appare, perché entrambi ribadiscono l’estraneità del Governo alla trattativa. Ma qualcosa del genere – conclude Pisanu – ci fu e Cosa Nostra la accompagnò con inaudite ostentazioni di forza”.

“Voglio segnalare a questo proposito – prosegue il presidente della Commissione Antimafia – una singolare corrispondenza di date che si verifica, a partire dal maggio del 1993, tra le stragi sul territorio continentale e la scadenza dei tre blocchi di 41 bis emessi nell’anno precedente. Il 27 maggio esplode la bomba di Via dei Georgofili, a meno di un mese dalla scadenza dei primi provvedimenti adottati dal Ministro Martelli. E’ il ‘colpettino… per stuzzicare la controparte’ di cui parlarono Riina e Brusca? O, in altri termini, un messaggio diretto a caldeggiare una richiesta o a riavviare una trattativa? Il messaggio, comunque, non viene raccolto e infatti i 325 provvedimenti vengono prorogati di un altro anno fino al 1994. Il 27 e 28 luglio esplodono le bombe di Milano e Roma e ‘Cosa Nostra’ assume una iniziativa senza precedenti: rivendica gli attentati in perfetto stile brigatista ed alza il tiro minacciando una nuova strage con la ‘garanzia di centinaia di morti’. Forse è il preavviso della strage programmata allo Stadio Olimpico che, per fortuna, fallirà. Andiamo avanti. Il 1° novembre del 1993 scade un altro blocco di provvedimenti 41 bis, ma nel frattempo ‘Cosa Nostra’ tace. Imprevedibilmente, tre giorni dopo quella scadenza, il 4 e il 6 novembre, il Ministro di Grazia e Giustizia non proroga il 41 bis a 140 detenuti nel carcere dell’Ucciardone di Palermo. Se ne può desumere che la ‘trattativa-ricatto’ abbia prodotto i suoi effetti tra il 29 luglio e il 6 novembre? E’ comunque plausibile ritenere che l’organizzazione mafiosa avesse interpretato quella revoca come un cedimento o una concessione dello Stato per i colpi subiti e che, pertanto, la campagna stragista dovesse andare avanti. Tanto più che il 31 gennaio 1994 sarebbe scaduto il provvedimento più importante, nel cui elenco figuravano alcuni dei boss più autorevoli di ‘Cosa Nostra’: Gerlando Alberti, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Stefano Fidanzati, Giacomo Gambino, Salvatore Greco, Luciano Liggio, Francesco Madonia, ecc.. Questa ipotesi si rafforzerebbe se la data della tentata strage allo Stadio Olimpico fosse quella indicata da G. Spatuzza: e cioè il 23 gennaio 1994, in occasione della partita di calcio Roma-Udinese. Naturalmente queste sincronie vanno prese con cautela, anche perché le stragi continentali erano state programmate con largo anticipo. Dobbiamo peraltro considerare che, secondo il compianto Dr. Chelazzi, ‘la causale delle stragi si è strutturata progressivamente con dei temi trainanti e altri che si sono aggiunti in corso d’opera’, determinando forse delle variazioni rispetto al programma iniziale. In ogni caso resta il fatto che la seconda revoca non ci fu, che la strage all’Olimpico non fu più tentata e che lo Stato non cedette. Anzi, andò via via intensificando le attività di prevenzione e di contrasto; attività che non avrebbero più avuto soste né con i governi di centro-sinistra né con quelli di centro-destra”.

“La stagione terribile delle stragi – prosegue Pisanu nelle sue conclusioni – si chiuse il 27 gennaio 1994 con l’arresto dei fratelli Graviano, capi indiscussi dell’ala più violenta, e con l’ascesa del ‘moderato’ Bernardo Provenzano ai vertici di Cosa Nostra. Costui spingerà l’associazione mafiosa a fare impresa, ad immergersi sempre più nell’economia e nella società, facendo tacere le armi: sarà la fine dei ‘viddani’ di Totò Riina, rinchiuso in carcere e reso impotente dal rigore del 41 bis. Anche la semplice narrazione dei fatti induce a ritenere che vi furono interventi esterni alla mafia nella programmazione ed esecuzione delle stragi. Fin dall’agosto del 1993, un rapporto della DIA, aveva intravisto e descritto ‘una aggregazione di tipo orizzontale’, in cui rientravano, oltre alla mafia, talune logge massoniche di Palermo e Trapani, gruppi eversivi di destra, funzionari infedeli dello Stato e amministratori corrotti. Sulla stessa linea, pur restringendo il campo, il procuratore di Caltanissetta Dr. Lari ha sostenuto recentemente che Cosa Nostra non è stata ‘eterodiretta da entità altre’, ma che al tavolo delle decisioni si siano trovati, accanto ai mafiosi, ’soggetti deviati dell’apparato istituzionale che hanno tradito lo Stato con lo scopo di destabilizzare il paese … mettendo a disposizione un know-how strategico e militare’. Nel luglio scorso lo stesso Dr. Lari aveva anticipato che, a seguito delle dichiarazioni di Spatuzza, ‘le investigazioni hanno lasciato la pista puramente mafiosa e puntano a scoprire un patto fra i boss di Cosa Nostra e Servizi Segreti’. Probabilmente Provenzano fu insieme a Ciancimino tra i protagonisti di trattative del genere, mentre Riina ne fu, almeno in parte, la posta. ‘Trattative’ complesse e a tutt’oggi oscure, nelle quali entrarono a vario titolo, per convergenza di interessi, soggetti diversi, ma tutti dotati di un concreto potere contrattuale da mettere sul piatto. Altrimenti ‘Cosa Nostra’ li avrebbe rifiutati. Proprio per questa intuibile o evidente complessità, dobbiamo guardarci bene dalle semplificazioni come dalle generalizzazioni: una testimonianza sul ’sentito dire’ ha bisogno di riscontri obiettivi e l’accostamento arbitrario di pezzi di verità diverse può darci, al massimo, solo una congettura. Mi riferisco soprattutto alla dimensione strettamente politica della trattativa e, in particolare, agli interessi politici della mafia nel periodo delle stragi. Uccisi, o minacciati di morte o abbandonati i suoi tradizionali referenti, ‘Cosa Nostra’ faticava a orientarsi e a costruire nuove alleanze in un contesto politico che, dopo la caduta del muro di Berlino, si stava ormai disgregando sotto i colpi di tangentopoli e quelli delle stesse stragi. Tanto è vero che cercò una soluzione, costruendosi un proprio partito regionale, ‘Sicilia Libera’, che avrebbe poi cercato di spendere sulla scena politica nazionale, ancora troppo confusa ed incerta. Perciò è probabile che all’indomani dell’arresto dei fratelli Graviano e della sconfitta dell’ala stragista, ‘Cosa Nostra’ si sia adeguata al nuovo ordine di Bernardo Provenzano e si sia messa alla finestra, in attesa di quel che sarebbe successo dopo le dimissioni del Governo Ciampi (13 gennaio 1994), lo scioglimento delle Camere e le elezioni anticipate. Da allora ad oggi, bloccato il braccio militare, ‘Cosa Nostra’ ha certamente curato le sue relazioni, i suoi affari, il suo potere. Ma da allora ad oggi ha perduto quasi tutti i suoi maggiori esponenti, mentre in Sicilia è cresciuta grandemente una opposizione sociale alla mafia che ha i suoi eroi e i suoi obiettivi civili e procede decisamente accanto alla magistratura e alle forze dell’ordine. Anche per questo – conclude il presidente Pisanu – “Cosa Nostra” ha forse rinunziato all’idea di confrontarsi da pari a pari con lo Stato, ma non ha certo rinunziato alla politica. Al contrario, con l’espandersi del suo potere economico ha sentito sempre più il bisogno di proteggere i suoi affari e i suoi uomini. Specialmente con gli strumenti della politica comunale, regionale, nazionale ed europea. Ma a questo punto entriamo nella seconda fase del nostro programma di lavoro: la lotta alle mafie italiane e straniere sul versante economico-finanziario: la nuova frontiera dell’antimafia”.

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